Inchiesta: L’aborto è sotto scacco in mezza Europa. E le donne non lo sanno

Spagna, Portogallo, Ungheria, Polonia e Francia sono gli stati dove si moltiplicano i tentativi di cancellare o indebolire le norme che regolano l’interruzione di gravidanza. Lo racconta un documentario di Arté

«Il diritto all’aborto sta subendo un’offensiva coordinata in tutta Europa, veicolata da campagne aggressive e generosamente finanziata da circoli ultra-conservatori americani e da oligarchi russi». Dalla Spagna alla Francia, passando per l’Ungheria, la Polonia e l’Italia, arrivando fino Bruxelles, una nuova generazione di attivisti esperti nella comunicazione sta conducendo ovunque in Europa una «crociata in nome di valori cristiani, il cui carattere reazionario è simboleggiato da un gancio, che richiama le tecniche degli aborti clandestini». A raccontarlo è il documentario Aborto – Le Nuove Crociate (titolo originale “Avortement – Les Croisés Contre Attaquent”) prodotto dalla rete televisiva franco-tedesca Arté nel 2017. ( disponibile gratuitamente qui )

Come funzionano i cimiteri dei feti

«I partiti antiabortisti – spiegano le registe Alexandra Jousset e Andrea Rawlins-Gaston- sono tornati in guerra e tutto accade come se la società non ne fosse ancora accorta. Ad interessare i nuovi crociati non è più la tomba di Cristo, ma i sepolcri degli embrioni abortiti». In Italia, tra obiettori e sepolture il documentario dedica una buona parte dei suoi 95 minuti all’Italia mostrando come funzionano i cimiteri dei feti, dove alcune associazioni, grazie a delle convenzioni con le aziende ospedaliere, seppelliscono embrioni e feti prodotti da un aborto, spesso senza che le donne ne siano a conoscenza. Tra queste c’è Marzia, una donna di Torino, che abortì per una trisomia nel 2008 e che cinque anni dopo fu contattata da un funzionario del cimitero perché erano scadute le concessioni del loculo che conteneva quello che lei oggi chiama «il mio embrione».

Mentre racconta la sua esperienza, Marzia mostra la fotografia di quella piccola tomba di cui ignorava l’esistenza e su cui qualcuno aveva deposto un peluche e aveva pregato. Chi pensa che l’esperienza di Marzia sia un’eccezione commette un peccato di ingenuità. Le telecamere mostrano un altro cimitero (a Brescia, ndr) con decine di file di piccole tombe tutte uguali: su tutte c’è scritto “Celeste”, (un nome che può indicare sia una presenza femminile, che una maschile).

Nel documentario una voce fuori campo si domanda: «quanti italiani ignorano il fatto che da qualche parte c’è una tomba che ricorda il nome e la data del loro aborto?». Le registe non entrano nei dettagli di questa prassi. Ma per capire come queste vicende siano potute accadere (e continuino ad accadere) vale la pena ricordare che questa attività è legale e trova spazio nelle pieghe della legislazione italiana. La normativa di riferimento in materia di seppellimento è attuata in maniera disomogenea nelle diverse regioni. A causa di questa disomogeneità può capitare che in qualche regione d’Italia il feto e l’embrione di una donna, di qualsiasi credo e nazionalità, che abbia abortito volontariamente o spontaneamente, anche di età gestazionale inferiore alle 20 settimane, venga seppellito in un cimitero comunale (con o senza rito cattolico) senza che la donna l’abbia richiesto. E senza che la donna venga a conoscenza dell’esistenza di una tomba che rimane come presenza, come traccia, di quell’evento. In barba al diritto di libertà di scelta dei cittadini e della laicità dell’istituzione comune.

Obiezione

Il documentario, poi, ci ricorda che nel nostro paese, sebbene sia possibile abortire legalmente dal 1978, il 70% dei ginecologi “obiettori di coscienza” rifiuta di praticarlo. Per l’esattezza i ginecologi obiettori sono il 68,4% e gli anestesisti il 45,6%. Tra le persone intervistate ci sono i familiari di Valentina Milluzzo, deceduta nel 2016 all’ospedale Cannizzaro di Catania per un’infezione perché i medici obiettori si sarebbero rifiutati di operarla dopo che i due gemelli di cui era incinta di cinque mesi erano morti in un aborto spontaneo. Il documentario è del 2017. Nel frattempo il Gup Giuseppina Montuori, accogliendo la richiesta della Procura di Catania, ha rinviato a giudizio i sette medici del reparto. Il reato ipotizzato è concorso in omicidio colposo plurimo (ma non si contesta il fatto che i medici fossero obiettori di coscienza). La prima udienza del processo si terrà il 3 luglio del 2019.

Le registe hanno incontrato anche Elisabetta Canitano, la ginecologa che da anni, attraverso la sua onlus, Vita di Donna, fornisce assistenza per qualsiasi problema di salute della donna. L’associazione sta realizzando una ricerca multilingue sulle barriere che limitano l’accesso all’ivg e sui viaggi intrapresi dalle donne in Europa per accedere a questo servizio. Per info )

L’aborto è sotto scacco anche nel resto d’Europa

L’Italia non è certo l’unico paese in cui è ampio il ricorso all’obiezione di coscienza e dove i diritti faticosamente raggiunti negli anni Settanta sono rimessi in discussione. Le registe riportano le storie di Valentina, Kata, Natalie: sono italiane, ungheresi, russe. Tutte pagano, o hanno pagato, con la loro vita, la loro salute, la loro libertà per le limitazioni imposte sui loro corpi. Il documentario rivela una guerra spregiudicata e insidiosa che si articola in tutta Europa attraverso tattiche complesse e differenziate e battaglie più o meno esplicite. Come scrive Lidia Cirillo nel libro appena pubblicato “Se il mondo torna uomo. Le donne e la regressione in Europa (edizione Alegre), «In Spagna le destre e il clero hanno tentato di cancellare – per ora senza successo – le forme della depenalizzazione già conquistate. In Portogallo un blitz estivo ha soppresso la gratuità dell’interruzione di gravidanza, ha imposto la consultazione obbligatoria con uno psicologo e concesso ancora più libertà agli obiettori. In Polonia è successo qualcosa di simile. Lì abortire era già difficilissimo ma nel 2015 il governo conservatore ha tentato una limitazione ulteriore che solo grandi manifestazioni hanno fatto fallire».

Tra lobby e social network

Il documentario esplora i riferimenti ideologici di questi attivisti, evidenzia l’importanza delle loro idee nella sfera pubblica, il loro grado di accesso ai media e al mondo politico. I nuovi leader sono giovani e moderni, padroneggiato i social network, usano i codici della pubblicità e riciclano la terminologia dei diritti umani usando parole come dignità, pace, libertà, vita e famiglia. Hanno colto l’importanza di lavorare insieme, sincronizzare le loro azioni e sono maestri nell’arte di fare pressione sull’Unione europea. I numeri lo dimostrano: nel 2013, la petizione europea “One of us”, che chiedeva di rispettare la vita umana fin dal concepimento, fu firmata da quasi due milioni di cittadini, un risultato mai raggiungo prima da altre iniziative popolari. I promotori hanno ottenuto un’audizione al Parlamento europeo ma la Commissione Europea ha bloccato la petizione che è ora al vaglio della Corte di giustizia europea.

Oggi l’anti-aborto è parte integrante del lobbismo europeo. Siccome la competenza in materia di aborto è riservata agli Stati membri, il loro obiettivo sono i progetti comunitari che finanziano la contraccezione e l’aborto nei paesi in via di sviluppo.

Flussi di denaro dalla Russia e degli Usa

Per vedere crescere le loro idee, i nuovi movimenti che minacciano l’aborto in Europa hanno bisogno di grandi finanziamenti. Il documentario rivela, con numerose prove a sostegno, che i fondi proverebbero da alcuni circoli russi e americani. Anche Silvia Brignoni prova a ricostruire questi flussi di denaro nel libro citato sopra. «Il denaro fluisce dalla Russia alla Spagna o dagli Stati Uniti alla Francia a sostegno di associazioni, siti o iniziative con strani passaggi tra istituzioni evangeliche statunitensi, oligarchi ortodossi russi e cattolici europei».

Secondo la ricostruzione delle registe, Vladimir Yakunin, fondamentalista ortodosso, avrebbe finanziato l’associazione CitizenGo www.citizengo.org dell’ultracattolico Ignacio Arsuaga, il cervello della battaglia contro la legge che in Spagna depenalizza l’aborto e che nel maggio 2018, in occasione dei 40 anni della Legge 194 in Italia, lanciò la campagna dal titolo “L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo”. Come dichiarano sul sito, CitizenGo, che ha il quartiere generale a Madrid ma è presente in 15 città in quattro continenti, fa pressione sulle istituzioni, sui governi e sulle organizzazioni di 50 diversi Stati. Alla sezione italiana appartengono i responsabili del comitato che ha indetto il Family Day.

Dalla Russia agli Stati Uniti: il Centro europeo per la legge e la giustizia, (Eclj), che dal 1998 ha sede a Strasburgo e fa lobby presso L’Onu, le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, il Parlamento europeo e l’Osce, su vita, famiglia, educazione e libertà religiosa, non è altro che la filiale di un’organizzazione con lo stesso nome che ha la sede principale a Washington, ed è presieduta da Jay Sekulow, avvocato di Trump, uno degli evangelici più influenti del paese. Qui l’aggressione è diventata più forte dopo l’elezione del nuovo presidente il cui vice, Mike Pence, è da sempre contrario all’aborto e ai diritti della comunità LGBT.

La direzione dei flussi avrebbe radici anche nell’ “Istituto Dignitatis Humanae”, il progetto di Steve Bannon, ex stratega di Trump, che ha il suo quartier generale alla certosa di Trisulti, in un antico convento a un centinaio di chilometri a Sud-Est di Roma.

La fragilità dei diritti

Settant’anni fa, Simone de Beauvoir scrisse parole profetiche:

Non dimenticate mai che è sufficiente una crisi politica, economica o religiosa per mettere in discussione i diritti delle donne. Questi diritti non sono acquisiti per sempre. Dovrete restare vigili per tutta la vostra vita