Inchiesta / Infanzia transgender: non c’è nessun allarme, nessun contagio sociale, non è una moda del momento

L’infanzia transgender? Non c’è nessun allarme, nessun contagio sociale, non ci sono numeri preoccupanti, non è una moda del momento. Piuttosto è un’esperienza rara, complessa e multiforme, ma che esiste da sempre.
La fotografia dell’esperienza italiana, con i numeri (inediti)

Chiariamo subito alcune cose: l’infanzia transgender non è un fenomeno dalle proporzioni preoccupanti e non c’è nessun contagio sociale. «Negli ultimi 13 anni, dal 2005 al maggio 2018 – spiega Damiana Massara, coordinatrice della Commissione minori dell’ONIG – Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere – sono 251 le famiglie che si sono rivolte ai centri specialistici che si occupano di bambini e adolescenti con Sviluppo Atipico dell’Identità di Genere». Alcuni avevano bisogno di capire come meglio agire nel benessere dei loro figli, altri di supporto. Solo alcuni sono arrivati con una richiesta esplicita di una terapia di affermazione di genere. Quasi sempre per questi ragazzi e per le loro famiglie è iniziato un percorso di valutazione psicologica e medico-endocrinologica. «Mai, in nessun caso – specifica Massara – si è proceduto con un adeguamento chirurgico del sesso, una pratica non raccomandata dalle linee guida internazionali fino al compimento del diciottesimo anno d’età».

Un fenomeno in crescita

Nel 2017 sono state 64 le nuove prese in carico negli 8 centri italiani dell’Onig (Torino, Trieste, Torre del Lago, Firenze, Bologna, Roma, Napoli e Milano), di cui 20 solo al Servizio di Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica dell’ospedale S. Camillo-Forlanini di Roma (Saifip). Nel 2016 le prese in carico furono 48, l’anno prima 31. I numeri però sono sottostimati perché considerano solo i casi di cui ci si occupa in ambienti clinici e non è rappresentativo di quanti mostrano segnali più o meno forti di disagio rispetto all’identità di genere. Restano invisibili le esperienze di quei minori che non cercano aiuto perché temono il giudizio della collettività o perché non dispongono di informazioni adeguate sugli specialisti a cui rivolgersi o perché l’incongruenza tra l’identità di genere e sesso biologico non crea sofferenza.

Quando si tratta di bambini, sono i genitori preoccupati a contattare i centri specializzati. Mentre sempre più spesso sono gli adolescenti che si attivano in prima persona, andando alla ricerca di informazioni grazie a internet e ai social network. «Nel nostro centro di Roma – spiega Maddalena Mosconi, psicoterapeuta del Saifip – stiamo osservando un aumento importante degli adolescenti che si definiscono gender fluid, intendendo con questo termine il bisogno di aderire a un modello non binario rispetto alle categorie maschio o femmina. Arrivano molti adolescenti che inizialmente vogliono effettuare un percorso di transizione FtoM (da femmina a maschio), ma poi durante il percorso psicologico si spostano verso una maggiore fluidità».

Continua a leggere sul sito di Vita.it cliccando qui