Psicologia femminile. Quando nasce una donna

Il passaggio all’età adulta si compone spesso di piccole e personali epifanie. Sollecitate dal corpo che cambia, o dal contesto d’origine. Dietro, però, c’è sempre l’emancipazione dalla madre. Ce lo spiega una psicoterapeuta in un libro appena uscito.

Provate a pensarci un attimo: quando è che vi siete sentite donne per la prima volta? Per Sara è stato quando i pantaloni si sono tinti di rosso; per Tiziana quando è arrivato il primo stipendio; per Aisha quando ha aperto lo scatolone dei libri preferiti nel nuovo appartamento; per Marian quando ha soffiato sui piedini di suo figlio; per Amina quando ha avvertito l’odore del partner tra le lenzuola. Per Laura, invece, quando è partita da sola per un viaggio.

Da bambina a donna

Per alcune donne il passaggio all’età adulta si compone di piccole, ripetute e personali epifanie che impongono continue sterzate alla propria esistenza. Per altre, invece, è l’evoluzione di un percorso di crescita che appare scontato, come quando la natura fa seguire l’estate alla primavera. «Non c’è una regola universale che accomuna tutte, ogni donna segue una propria personale bussola» commenta Sofia Bignamini, che di ragazze e donne ne ha incontrate parecchie nel suo lavoro ventennale di psicoterapeuta al consultorio Minotauro di Milano.

«E ciascuna – racconta nel suo ultimo libro, Quando nasce una donna (Solferino) – assorbe, interpreta e rielabora le sollecitazioni ricevute nell’arco della propria esistenza». Alcune di queste arrivano dal corpo e hanno a che fare con la comparsa, la manutenzione e il venir meno della fertilità. Altre, invece, provengono dall’ambiente familiare, sociale, culturale che ciascuna ha avuto in dono.

Oggi i giovani genitori (più spesso le madri) promuovono orgogliosamente con le loro figlie la mitologia e l’iconografia delle bambine ribelli, con l’intento di spingerle a «sognare più in grande, puntare più in alto, lottare con più energia» (come si legge nel frontespizio di Storie della buonanotte per bambine ribelli) perché nulla è loro precluso per natura, ma lo è solo per cultura ed educazione

. «L’intento è lodevole – spiega Bignamini – anche se il rischio è che questi modelli, che privilegiano eroine impavide, coraggiose, ribelli, indomite e soprattutto vincenti, si trasformino in una sorta di nuovo stereotipo, opposto a quello tradizionale, ma in ogni caso vincolante, opprimente e chiuso al pari di quelli da cui si desiderava emanciparsi».

Il diritto di scegliersi i sogni

Quando invece, dice, «sarebbe meglio si sostenesse il sacrosanto diritto delle bambine e dei bambini di scegliersi i propri sogni e i propri modelli, liberandoli dall’imbrigliamento dello stereotipo e dall’obbedienza cieca a un unico canone». Altrimenti a sentirsi leso sarà il sentimento di sé. Come nel caso di Daniela, che vi raccontiamo in queste pagine. Particolarmente significativa nel percorso di crescita risulta essere l’eredità ricevuta dalla madre.

«È da lei – spiega Bignamini – che le femmine apprendono cosa significhi essere donna e come interpretare questo ruolo». Riconoscere questa primordiale “lezione”, ed eventualmente distanziarsene, emanciparsi o riconciliarsi, non è un gesto scontato: qualcuna ci riesce con scioltezza, qualcuna mette in atto varie forme di autosabotaggio, altre invece finiscono per esserne vittima.LEGGI ANCHE› Madri bambine: il progetto fotografico #childmothers nato per dare visibilità al fenomeno

L’eredità delle madri

«Nessuna figlia, comunque, può pensare di stare in pace con sé stessa se non ha fatto pace con l’altra» spiega la psicoterapeuta, che, non a caso, cita il libro Lasciami andare, madre di Helga Schneider, tendendo, metaforicamente, una mano a tutte quelle figlie che non riescono a immunizzarsi dalla speranza di poter rattoppare i brandelli desolati di relazioni con madri incapaci di esserlo.

Comunque, contro ogni forma di determinismo che attribuisce alle madri tutti i mali che abitano le figlie (come sanno bene le madri delle anoressiche, sistematicamente sotto accusa), Bignamini rivendica anche l’importanza del gruppo. «Dalle sorelle March, fino alle quattro amiche di Sex and the City, è nel cerchio magico della sorellanza (un luogo a tratti paradisiaco, a tratti infernale) che le donne cominciano a comporre quel mosaico cangiante che è la propria identità».

«Signora, che nome scrivo?»
Francesca, 58 anni, Milano

«Le camicie saranno pronte tra due giorni, appese e non piegate. Che nome scrivo?». «Francesca, grazie». È stato in quel momento, mentre uscivo dalla nuova lavanderia dopo aver dato per la prima volta il mio nome e non quello di mio marito,che mi sono ricordata chi fossi. Non (solo) figlia e sorella, non (solo) moglie e madre, ma donna. La vecchia commessa non me lo chiedeva più: per lei ero Bigalli. Me ne ero convinta anche io. E infatti le nove lettere del mio nome, appena uscite dalle mie labbra, mi apparivano estranee: mi sorpresi nel realizzare come i tanti ruoli e le tante definizioni che altri mi avevano cucito addosso mi stessero facendo dimenticare persino il suono del mio nome. Sentii che avevo bisogno di scrivere una nuova grammatica, in cui sentirmi il soggetto principale, e non più una preposizione. Mi convinsi che non mi sarebbe bastato bruciare nella salvia ciò che volevo salutare. Partì da lì una rivoluzione, decisi di mollare tutto: il lavoro, il matrimonio, i figli, e di ricominciare da capo, anche se non sapevo esattamente come. Iniziai concedendomi il privilegio di accarezzare quei sogni che per troppo tempo erano rimasti sepolti negli anfratti dell’anima».

«Certi fili non hanno bisogno di essere recisi. Basta assottigliarli»
Sara, 44 anni, San Benedetto del Tronto

«A 21 anni feci domanda per l’Erasmus. La mia educazione mi tiranneggiava: a casa non mi riconoscevano né spazio, né fiducia. Sentivo che l’unico modo per crescere, per scoprirmi, per esprimermi, era recidere il filo che mi legava alla mia famiglia. Come meta scelsi la Spagna: lì, lontano da quegli sguardi severi, si sarebbe dipanato il mio apprendistato all’adultità. Appena atterrata, sostituii in fretta l’identità ereditata con quella di una coetanea straniera, indossai vestiti nuovi e iniziai ad abitare una nuova lingua. Mi sentivo euforica. Libera. Ma la memoria ha scarpe buone: di notte, le raccomandazioni di mia madre tornavano insieme al sonno e l’entusiasmo di quelle scoperte si condensava in lacrime. Ci volle molto tempo prima che la sua voce smettesse di parlarmi. Forse non lo fece mai del tutto,semplicemente a un certo punto si confuse con quella delle nuove persone che man mano incontravo: tra queste c’era anche la mia. Sperimentai in quei mesi che il passato non muore,ma almeno si deforma e rimpicciolisce.Talvolta, anche se ora vivo a Berlino, il passato allunga ancora le mani sul presente, ma non fa più male: la mia infanzia e i miei progetti, finalmente, si guardano come due avversari dopo un armistizio».

«Hänsel e Gretel: il mio anatema»
Daniela, 30 anni, Catania


«Nella mia famiglia le donne hanno sempre comandato. Lo hanno fatto da un angolo, stando attente a non ferire la permalosità e l’orgoglio dei maschi, masticando rabbia, fatica e stanchezza. Imperiose e trionfanti, strette nel loro celato matriarcato, per tutta l’infanzia non hanno fatto che ripetermi che la dignità di una donna si poggia sul fatto di non dipendere mai, in nessuna occasione, da un uomo e che quel che più conta è realizzare i propri talenti. La sera, prima ancora che diventassero di moda le storie per bambine ribelli, per addormentarmi mi leggevano le fiabe che avevano come protagoniste delle bambine coraggiose: volevano che diventassi come Gretel che, nella fiaba dei Grimm, è colei che butta la strega nel forno e libera il fratello. Ma io sentivo di non avere ricevuto quell’eredità. Per me quell’ostentazione impudica di forza, cocciutaggine, determinazione aveva qualcosa di ossessivo e più crescevo, più pativo il potere coercitivo di questo comandamento. Decisi presto che avrei fatto di tutto per scrostare questo anatema. Da disobbediente costretta, iniziai a rispondere con accondiscendenza. “Sì, va bene, come vuoi”. Questa per me era libertà».