Il corso preparto? Per le mamme. La chat di scuola o il pediatra? Sempre per loro. I padri vorrebbero esserci, ma restano tagliati fuori. E le loro compagne, pur affaticate dai compiti di cura, delegano poco. Un corto circuito da cui si può uscire con un forte cambiamento culturale
An Elephant in the room, un elefante nella stanza. Con questa metafora gli inglesi indicano una verità evidente e ingombrante che tutti conoscono e percepiscono ma che fingono di non vedere. Una verità però che – proprio come un animale enorme piazzato in un angolo della casa – non si può ignorare se si desidera procedere con la propria vita. Riflettendo sull’invisibilità che ancora investe i papà, viene da chiedersi se loro non siano i nostri elefanti nella stanza.
La rimozione sociale dei papà
Infatti, benché il loro coinvolgimento nella crescita e nella cura dei figli sia significativamente mutato rispetto alle generazioni precedenti, la nostra società continua a considerarli latitanti, assenti, oppure figure marginali. Superflue. Accessorie. Insignificanti. Dei papà, del loro ruolo e delle loro esigenze, non si tiene conto quando si progettano i bagni nei luoghi pubblici e si mette il fasciatoio nelle toilette delle signore, quando si pubblicizza il corso di yoga e lo si chiama “Yoga mammabambino”, quando si chiama la chat della scuola “la chat delle mamme delle quinta B”, quando per descrivere la battaglia dei genitori per riaprire le scuole si parla di “battaglia delle mamme”. Non lo si fa nemmeno quando si tergiversa nel riconoscere un più lungo congedo parentale ai papà e durante l’inserimento all’asilo si domanda loro: “La mamma non poteva venire?”. Fior di manuali ed esperti sottolineano l’importanza che la presenza del padre rappresenta per la crescita dei figli e il benessere della compagna, ma poi nella quotidianità si fa il contrario. Come se ci fosse una continua rimozione sociale. Come se teoria e pratica non fossero mai in sincrono.
Un estintore accanto alla Gioconda
Anche quando i papà varcano frontiere pensate come insuperabili, come il corso preparto, la scuola o l’ambulatorio del pediatra, vengono trattati come se fossero animali rari, oppure comparse che salgono sul palco perché il primo attore ha la febbre. «Ci consi derano importanti come l’estintore rosso vicino alla Gioconda»: così lo scrittore Stefano Sgambati aveva descritto il suo vissuto durante il percorso di procreazione medicalmente assistita nel libro La bambina ovunque (Mondadori).
La scelta di tenere i riflettori puntati solo sulle mamme, però, oltre a essere limitante, genera anche un corto circuito. Perché se da una parte le donne si lamentano (e a ragione) di portare il maggiore carico di cura, dall’altra faticano a cedere, anzi a condividere, lo scettro con i compagni, perché una lunga tradizione culturale, intrisa di stereotipi di genere, ha fatto credere loro di essere le persone più titolate (persino le uniche) a prendersi cura dei figli. Perciò, anche quando includono i padri dentro un rapporto con i figli che avevano considerato esclusivo, lo fanno con sospetto e circospezione. Come se gli uomini fossero sempre in prova, sempre sotto esame, come se ogni giorno dovessero dimostrare di essere all’altezza del compito e delle aspettative. Oggi la pandemia sembra aver persino acuito l’invisibilità che aleggia sui papà. Con l’obiettivo di contenere il contagio, molti di loro sono stati allontanati proprio nel momento in cui i figli stavano nascendo. I più fortunati, se così si possono definire, hanno dormito in macchina, in attesa che la compagna entrasse in travaglio attivo e fosse loro concesso di partecipare al parto. In piena contraddizione con le raccomandazione dell’Oms che definisce «auspicabile» la presenza del partner, con rispetto delle distanze e utilizzo dei dispositivi medici.
Poche settimane fa una donna ha perso il suo bambino alla 38esima settimana di gestazione e la struttura ospedaliera ha negato l’accesso al suo compagno, il padre del bambino, senza nemmeno sottoporlo a tampone. La donna ha dovuto partorire quel figlio e vivere quella tragedia da sola. L’uomo ha scritto a CiaoLapo, la onlus che da 14 anni offre supporto alle famiglie in lutto, chiedendo aiuto. Ascolto. Compassione. Il suo dolore è stato ignorato.
La vulnerabilità è unisex
Sul sito del ministero della Salute la pagina dedicata alla depressione post partum parla solo delle mamme. E se fosse un papà a soffrirne? Non c’è nessuna indicazione. Altrove non è così: nel 2018 il governo inglese ha incluso la categoria dei new parents, neogenitori, nella rete delle persone vulnerabili delle quali si sarebbe occupato il nuovo Ministero della Solitudine, il primo in Europa. La stampa italiana ha tradotto new parents con “neomamme”. Un lapsus che ha certificato la nostra tendenza a non pensare mai ai papà. Anche quando si progettano le politiche familiari si sottovaluta il contributo che proviene dai padri e si ignora il fatto che molti di loro hanno (già) modificato la propria sfera lavorativa per occuparsi dei figli. Il rapporto dell’Ispettorato del lavoro lo indica chiaramente: nel 2019 quasi 14mila papà (il 27 per cento) hanno detto addio al proprio impiego per prendersi cura dei bambini più piccoli. Certo, sono pochi in proporzione alle 37mila mamme, ma di loro non si parla. Un altro caso di elefante nella stanza? Lorenzo Gasparrini è uno dei pochi uomini italiani che studiano e scrivono di questioni di genere. Lui gli elefanti nella stanza li vede eccome. A Tiziana Ferrario, che ha scritto Uomini, è ora di giocare senza falli! (Chiarelettere), ha raccontato che oggi di parità si parla spesso, soprattutto tra i giovani.
Un Paese ancora maschilista
Ciononostante «il Paese rimane profondamente maschilista». Ferrario gli fa notare che servirebbero più modelli disposti a testimoniare una mascolinità diversa. «L’opinione pubblica italiana non è pronta» risponde l’esperto, «e siccome i politici cercano consenso, preferiscono non affrontare la questione in chiave personale». Lui stesso, ad esempio, ha dovuto subire discriminazioni per essersi occupato di questi temi: è stato definito «estremista», persino «sbagliato». «Certi femminismi» sottolinea, «mettono in pratica e difendono discriminazioni che, in teoria, sono di natura patriarcale». La sua esperienza ci ricorda che anche il percorso verso una genitorialità consapevole e condivisa è una strada che si percorre in due: la mamma molla un po’, e il papà afferra con forza e determinazione lo spazio che gli appartiene.