Che cosa spinge le giovani coppie a formare una famiglia con due o più figli? Come risolvono difficoltà pratiche ed emotive per altri insuperabili? Aiuti, pochi. Ostacoli, tanti. Gli stessi che vivono tutti gli altri. Eppure una parte (minoritaria) delle giovani coppie decide di avere più di un figlio. Una sfida, di questi tempi. Che però per tutti significa gioia
Prendersi cura di due figli non è solo avere il doppio delle borse sotto gli occhi, il doppio delle macchie sui vestiti, il doppio delle spese o delle preoccupazioni. È provare le stesse emozioni che si avvertono quando si ha un figlio solo, ma in maniera esponenziale. Non è una semplice somma. È una moltiplicazione al quadrato. Compresa la felicità. Solo che quando si è nel mezzo di una tempesta, come può esserlo la vita con i bimbi molto piccoli, questa felicità gioca a nascondino. Si fa fatica a riconoscerla, si fa fatica a fermarsi un attimo, a fare un check-up e vedere come si sta, come si sta andando. Gli occhi sono chiusi per paura, come quando si fa un salto, oppure come quando si corre tanto, e allora importa solo che non ci siano ostacoli sulla strada. All’inizio, raccontano Miriam e Stefano, una coppia di Arezzo, «pensavamo fosse già abbastanza, un figlio. Persino troppo. Ci sembrava che Lucas avesse sempre bisogno di noi, per mangiare, per dormire, per giocare». Poi però sono successe due cose: «Lucas è cresciuto, e abbiamo cominciato a capire che ogni età ha le sue fasi, ma le fasi passano. E noi, anche se con i capelli più arruffati e ingrigiti e con il volto un po’ segnato, da quella tempesta ne eravamo usciti». Ma soprattutto, è nata Alice. «Era come se la felicità abitasse già nella nostra famiglia, ma fosse scritta con l’inchiostro simpatico. Lei è stata la luce che l’ha palesata, e l’ha fatta emergere, al di là delle nostre fatiche».
Confusi e felici
Angela e Matteo, pur riconoscendo i momenti di smarrimento, credono che avere due figlie sia più facile che averne una. «Le nostre hanno uno e tre anni, le paure e le insicurezze che i primi mesi erano prepotenti, ora si sono fatte più silenti. Nel nostro caso – dicono – c’è voluta la seconda figlia per scoprirci genitori più imperfetti, più leggeri, più contenti». Forse, dicono, «la felicità è un difetto della vista». In Italia capita spesso che dopo la nascita del primo figlio ci si fermi. L’Istat dice che al netto delle 500mila persone che non desiderano figli, la maggioranza degli italiani (il 46 per cento) desidererebbe avere due figli e solo il 5,6 per cento vorrebbe il figlio unico. All’origine del significativo scarto tra quanto si desidera (due figli) e quanto si riesce a realizzare (poco più di un figlio, 1,38 per la precisione) ci sono un’infinità di cause che attengono alla sfera economica, sociale, politica, culturale, come già analizzato nelle altre puntate di questa inchiesta.
Una finestra sulla propria infanzia
Secondo la pedagogista Emily Mignanelli, in libreria con Non basta diventare grandi per essere adulti (Feltrinelli), però, c’è qualcosa di più profondo, personale, dietro la scelta di non allargare la famiglia. «A un certo punto si diventa genitori e si scopre che non è così facile. Non solo per le notti in bianco, le bolle di sapone nella borsa, e le costruzioni nel letto. No, la difficoltà nasce dal fatto che diventare genitori impone di affacciarsi nel cortile della propria infanzia dove sono depositati punti oscuri, ferite mai sanate, oppure dolori antichi curati in maniera raffazzonata».
I figli fanno venire le vertigini
Secondo la società di mercato Swg, un genitore su 4 non rifarebbe un figlio se potesse tornare indietro. È un dato nuovo: prima forse era meno avvertito, oppure era solo nascosto, come un segreto inconfessabile. Il figlio è visto da molti dei “genitori pentiti” (come li chiamano i sociologi), come un ciclone che spazza via la vita mondana, gli aperitivi, le feste, il tempo per sé, per la coppia. «Ma questa è una lettura superficiale e parziale» commenta Mignanelli. «Io credo piuttosto che essere mamma o papà porti con sé tante domande sul senso della vita e questi quesiti facciano venire le vertigini». I figli esplorano senza filtri e reticenze la vita invisibile dei genitori, fanno uscire dai loro cassetti i sentimenti, le paure, la pigrizia, la tristezza, la rabbia soffocata. Può essere doloroso. Fortunatamente spesso riesumano anche le speranze, le aspirazioni, i sogni. Quando, tre anni fa, la giovane coppia franco-italiana Likemiljian ha deciso di disdire l’affitto e partire per fare il giro del mondo, Lia non aveva ancora un anno e Teo aveva due anni e mezzo. In viaggio è nato anche Milo, che ha appena compiuto un anno. Per loro i figli sono stati l’occasione per rivedere abitudini e traiettorie di vita apparentemente immutabili, per ripensare la propria esistenza, in positivo. «I bambini non richiedono rinunce, ma riassestamenti» raccontano via mail, dalla loro nuova casa a Bali. «Fanno uscire da noi qualcosa di diverso, inatteso».
Senza timore degli imprevisti
Teo, Lia e Milo sono sempre con i genitori mentre loro lavorano, prendono aerei, valicano confini. Come hanno fatto? «Forse il nostro segreto – spiega Miki, la mamma – è l’interscambiabilità: entrambi ci occupiamo dei bambini allo stesso modo e in egual quantità». Per quanto, in generale, la narrazione sui social sia sempre un po’ artificiale, dalle loro pagine (facebook.com/likemiljian e @likemiljian) traspare una spiccata capacità di accettare la sfida della vita che si rinnova e una invidiabile abilità nel fronteggiare gli imprevisti quotidiani. Quel famoso aforisma (forse di Gandhi) «La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia» sembra ce l’abbiano tatuato sulla pelle. La dottoressa Cecilia Gioia, psicoterapeuta esperta in perinatalità di Ospedali Riuniti iGreco di Cosenza, però mette in guardia dal rischio di ergere le scelte personali a modelli universali. «Forse non tutti sono capaci di ballare sotto la pioggia. O forse nemmeno lo desiderano.È importante che ogni famiglia riconosca le proprie peculiarità e si faccia forte di questo».
Manca il villaggio
Secondo Gioia dietro la fatica di alcune famiglie a vivere la genitorialità c’è molta solitudine. «A loro manca il villaggio, una rete di relazioni parentali o sociali, che alleggerisca o almeno sostenga fisicamente e psicologicamente quando avvertono che qualche fondamenta sta scricchiolando». A Cosenza, la dottoressa ha fondato l’associazione di volontariato MammacheMamme e ha attivato insieme a PartecipaAzione Onlus il progetto “Accompagna-Menti”, un programma finanziato dalla Regione Calabria, dedicato alle neomamme. «Avere una rete a cui aggrapparsi, anche solo momentaneamente, anche solo su zoom, si dimostra di grande aiuto in un momento critico come quello che stiamo vivendo». La pandemia, racconta, «ha avuto un effetto detonante sulle scelte di alcune coppie. Se da una parte ha elevato alla seconda timori, ansie e preoccupazioni e ha spinto alcuni a rinunciare alla scelta di fare un figlio, dall’altra ha portato a nuove consapevolezze nella ridefinizione delle priorità, facendo cambiare idea a chi stava rimandando la genitorialità».