Chi aiuta i responsabili di violenze sulle donne? Inchiesta sui centri di sostegno e recupero dei “maltrattanti”
Siamo dunque partiti da qui per provare a capire cosa facciano esattamente questi centri, quanti siano, come funzionino. E, soprattutto, chi verifichi l’efficacia del loro intervento.
Prima di iniziare occorre tenere a mente questo dato: «In assenza di un intervento di supporto, otto uomini maltrattanti su dieci (85 per cento) tornano a commettere violenze contro le donne. Coloro che riescono a ritrovare autonomamente un equilibrio dopo un primo episodio di violenza sono una minoranza esigua». Il dato è contenuto nella “relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza di genere” approvata il 25 maggio dalla commissione di Inchiesta sul Femminicidio presieduta dalla senatrice Valeria Valente. http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/368125.pdf
«Limitarsi a punire, senza attivare un trattamento – spiegano gli esperti -non produce alcun effetto preventivo. Anzi peggiora la situazione», perché, si legge nel documento, «la detenzione tende a rinforzare ulteriormente i sentimenti di rabbia di questi uomini, la percezione di sé come vittima e il desiderio di vendicarsi nei confronti della donna, recidivando comportamenti violenti ed esponendola a rischi di escalation di violenza». Con severe conseguenze anche per i suoi bambini o ragazzi. Il comportamento violento, infatti, spesso, può essere appreso dai figli, e replicato anche a distanza di molti anni. Secondo l’ISTAT molti degli uomini autori sono stati a loro volta vittime o testimoni di violenza da bambini. https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/fattori-di-rischio: «I figli che assistono alla violenza del padre nei confronti della madre o che l’hanno subita hanno una probabilità maggiore di essere autori di violenza nei confronti delle proprie compagne e le figlie di esserne vittime. Dai dati emerge chiaramente che i maschi imparano ad agire la violenza, le femmine a tollerarla».
Dovrebbe, forse, bastare questo elemento per convincerci dell’importanza di una diffusione capillare dei centri dedicati agli uomini autori di violenza. E invece non è così, perché questi servizi oggi mostrano ancora parecchie criticità che fanno dubitare, talvolta, della loro efficacia.
- La motivazione è dirimente
Come si legge nella relazione del Senato, essendo il trattamento sugli uomini autori di violenza finalizzato ad una presa di consapevolezza dei propri agiti e ad evitare che tali agiti si ripetano nel futuro, la motivazione che spinge il soggetto a intraprendere il percorso è di primaria importanza, così come avere ben chiaro se qualcuno l’ha sollecitato oppure obbligato.
- Pochi gli uomini che accedono spontaneamente
Oggi sono rari i casi in cui gli uomini accedono al percorso in virtù di una domanda spontanea, dopo aver riconosciuto di essere a rischio di commettere violenza di qualsiasi genere, fisica come psicologica o economica. Spesso, al contrario, prendono contatto con un centro specializzato perché inviati da parte delle Forze dell’ordine, oppure dai giudici oppure dai servizi sociali.
Per chiarire: il primo caso (invio da parte delle Forze dell’ordine) si manifesta in accordo con quanto previsto dal Protocollo Zeus, https://www.poliziadistato.it/articolo/protocollo-zeus siglato tra il CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) e la Divisione anticrimine della Questura di Milano nel 2018 (e successivamente applicato in altre 35 questure). Il progetto, il cui nome evoca il primo maltrattante (noto) della storia, prevede che i destinatari dell’ammonimento del questore per atti persecutori, per violenza domestica e per cyberbullismo siano spinti a frequentare un programma di prevenzione organizzato dai servizi del territorio. Tale invito non è obbligatorio ma, essendo l’uomo «attenzionato», è fortemente suggerito. L’obiettivo? Troncare sul nascere l’agire inadeguato e violento, per evitare che gli Zeus in erba si trasformino in despoti.
Nel secondo caso l’accesso al trattamento avviene attraverso la normativa del «Codice Rosso», (entrata in vigore il 9 agosto 2019), in base alla quale il giudice può decidere di inviare l’autore ad un percorso trattamentale specifico. In questo caso il percorso (che prevede un contributo economico da parte dell’autore di violenza) può essere vissuto sostanzialmente come un obbligo da adempiere, e quindi affrontato senza il necessario coinvolgimento. L’obiettivo che l’uomo si propone potrebbe essere in primo luogo strumentale, ossia scongiurare la detenzione o alleviare la pena.
Nel terzo caso, l’avvio di un percorso viene suggerito da parte dell’assistente sociale, con l’obiettivo di individuare la soluzione migliore per le cure e la crescita dei minori in caso di affidamento. In Italia, infatti, anche in presenza di un genitore autore di violenza si dà la priorità al fatto che un figlio mantenga i contatti con lui, in nome del principio della bigenitorialità e nella convinzione che un uomo autore di violenza versa una compagna possa comunque essere un buon padre. Una pratica tanto rischiosa quanto pervasiva: «Nella quasi totalità dei casi (96%) i Tribunali ordinari non approfondiscono gli atti relativi alle violenze, tanto che i minori vengono affidati nel 54% dei casi alle madri, ma con incontri liberi con il padre violento»: lo scrive -per l’ennesima volta- la Commissione di inchiesta sul Femminicidio nella relazione sulla vittimizzazione secondaria (13 maggio 2022), https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/44542.htm, dopo aver esaminato circa 1500 fascicoli processuali.