La libertà dopo 16 anni di violenze dal marito

👉Sedici anni: è il tempo che è servito a Emanuela Castaldo prima di sottrarsi alla violenza del marito e mettere al sicuro se stessa e i suoi tre figli. Spesso le chiedono “perché hai sopportato tanto? «È difficile da spiegare», ci racconta. «All’inizio la nostra storia sembrava una favola e io mi innamoro follemente». Poi lui le chiede di lasciare Roma, per stargli vicino. Lei lo fa. Poi gli impone di mollare il lavoro. Lei lo fa. «Non ci faccio caso. Penso: ci tiene molto». Il sogno comincia a scricchiolare davanti ad uno schiaffo. «Il primo non lo dimentichi, la faccia è gonfia, ma è dentro che sanguina l’anima. Ti senti tradita da chi aveva detto “a te ci penso io”».

È solo l’inizio. Seguono mobili rotti, i calci nella schiena, lo sguardo livido, il sangue che incrosta i vestiti, le corse al pronto soccorso: “sono caduta”. Ogni giorno è peggio. «Non l’ho capito subito, ma dallo schiaffo alla distruzione di chi sei ci passa poco o niente. Inizi a nascondere le cose per evitare discussioni. Ti prendi la colpa anche quando non hai fatto nulla. Ti lasci convincere che sei sbagliata, che in fondo “se ti picchia è per farti capire quello che è giusto. Lui intanto si prende tutto, i soldi come il sesso. La tua dignità. La speranza. E alla fine di te non te ne frega più nulla».

Trema ripensando a quei momenti. Anche se ora vede tutto più chiaramente, non si dà pace. «Mi viene difficile raccontare agli altri perché so che non è comprensibile. Chi può comprendere una donna che dopo essere stata picchiata supplicava di essere perdonata? Nessuno, se non ha attraversato la violenza domestica, la comprende e la perdona. A chi mi giudica o compatisce io rispondo così: ci sono modi di amare malati. Succede e basta». Io, aggiunge, «forse ho subito e sono stata zitta per poter dire ai miei figli che avevano una famiglia felice. Per l’illusione di avere una casa, di sentirsi amata, desiderata».

[…]

Racconta anche di quando quattro anni fa tentò il suicidio. A salvarla fu sua figlia, che intervenne in tempo. Quello fu il punto di non ritorno. «A lei, che aveva 11 anni, e agli altri due figli, di sei e di quattro, promisi che ce ne saremmo andati». Fu così. «La paura di morire ti dà la spinta di percorrere la strada a fari spenti, ti fa scappare per due chilometri a piedi, salire su un autobus verso la stazione per prendere un treno qualsiasi». Mentre attendono al binario, però, succedere una cosa che cambia per sempre la loro traiettoria di vita. «Una poliziotta ci nota, capisce tutto, ci avvicina e ci dice: “Signora venga, da questo momento la proteggiamo noi”. Emanuela viene accompagnata a sporgere denuncia e poi tutti e quattro vengono scortati fino a casa Lorena, Centro Antiviolenza e Casa di Accoglienza per Donne Maltrattate a Casal di Principe (Caserta). Per cinque mesi, accolta e supportata dalle operatrici specializzate della Cooperativa E.V.A., piange e urla, dando sfogo ad un dolore di sedici lunghi anni.

«Ho buttato tutti i tasselli della mia vita sul tavolo, li ho rimessi in ordine, per capire che a sbagliare non ero stata io». Ricostruisce la sua biografia, scandaglia il suo passato: «Pure mio padre diceva che era geloso di me. Quello era l’unico amore che avevo conosciuto». Chiede perdono ai suoi bambini: «non mi sono accorta, non ho voluto vedere la loro sofferenza. Ho dato più peso ad un’illusione d’amore. Ho difeso un’immagine di famiglia felice oltre ogni evidenza».

A casa Lorena inizia una nuova vita. Oggi Emanuela ha 45 anni, lavora, i suoi figli sono più sereni. Ma non è stato facile, nemmeno il “dopo”. «Mi sono dovuta difendere da tutti, da lui, dagli avvocati, dai PM, dallo Stato, dagli assistenti sociali». Quando può, porta la sua esperienza davanti ad altre donne: «per dire che se ce l’ho fatta io, potete farcela anche voi». In tasca custodisce un foglio dove ha scritto queste parole: “SONO LIBERA, OGGI RESPIRO, SONO TUTTO, SONO MIA”.